In tema di produttività, il Piano nazionale di ripresa e resilienza porta a sintesi una profonda convinzione di molta analisi economica. “Dietro la difficoltà dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali – si scrive nel PNRR – c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo”. La Commissione europea attribuisce il basso ritmo di crescita dell’economia italiana principalmente a un andamento insoddisfacente della produttività totale dei fattori (TFP), la cui causa è di carattere ormai strutturale, tanto da richiedere “un ampio spettro di riforme e politiche mirate”.
Nel PNRR sono citate molte delle cause che hanno determinato l’andamento negativo della produttività: “l’incapacità di cogliere le molte opportunità legate alla rivoluzione digitale”; “la struttura del tessuto produttivo, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese, che sono state spesso lente nell’adottare nuove tecnologie e muoversi verso produzioni a più alto valore aggiunto”; il “calo degli investimenti pubblici e privati, che ha rallentato i necessari processi di modernizzazione della pubblica amministrazione, delle infrastrutture e delle filiere produttive”; “la relativa lentezza nella realizzazione di alcune riforme strutturali”. Riforme che il Piano intende realizzare: “Il governo intende attuare quattro importanti riforme di contesto – pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione della legislazione e promozione della concorrenza”.
Alle riforme si accompagna, come è noto, una importante fase di rilancio degli investimenti, che insieme alle riforme “contribuiscono a rilanciare la produttività totale dei fattori e con essa la crescita potenziale dell’economia italiana”. Non si cita però il tema delle città come causa della debole crescita della produttività del nostro Paese, anche se alle città verranno poi indirizzate parte delle risorse: 11 miliardi di euro alle aree metropolitane e molte risorse su varie azioni settoriali indirizzate ai comuni (l’IFEL in una sua analisi stimava oltre 50 miliardi di euro). Il PNRR ha scelto, dati anche i tempi stretti, una via di spesa settoriale temendo che l’avvio di progetti più integrati richiedesse nel complesso sistema decisionale italiano tempi più lunghi.
Su questa chiara illustrazione della questione produttività resta però una riflessione da fare a partire da una domanda: è possibile che la debole crescita della produttività italiana negli anni 2000 possa essere imputata anche alla evidente difficoltà del sistema urbano del nostro Paese ad adattarsi alle sfide del nuovo millennio? In particolare, ci chiediamo se le città italiane hanno visto nel XXI secolo aumentare la loro produttività e la loro competitività nel confronto internazionale ed europeo e soprattutto rispetto alla dinamica nazionale. Insomma le città hanno trainato verso l’alto o verso il basso?
Figura 1. – Trend di crescita della produttività per addetto nelle prime 5 regioni metropolitane (2001=100, valori costanti a PPP)
Fonte: elaborazione CRESME su dati OECD
L’analisi dei dati OCDE relativi alle unità territoriali statistiche definite come “regione metropolitana” ci consente di dire che negli anni 2000, prima della pandemia, le aree metropolitane italiane hanno mostrato un preoccupante trend di riduzione della produttività del lavoro, in controtendenza rispetto a quanto registrato nelle principali aree metropolitane europee: fatto 100 la produttività per addetto nel 2001, nel 2018 questa era pari a 122 in Francia, 119 nel Regno Unito, 117 negli USA, 111 in Spagna, 107 , mentre quella delle cinque principali aree metropolitane italiane era calata del 6%.
Ma è soprattutto confrontando il dato delle aree metropolitane con quello nazionale che i dati colpiscono: tra 2000 e 2019 la produttività misurata in PIL a valori concatenati per occupato, diminuisce del 4,8% in Italia, ma del 7,3% nell’insieme delle cinque città metropolitane in esame: Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli.
Figura 2. Produttività, Pil per occupato, valori concatenati, indice 2000 = 100
Fonte: elaborazione CRESME su dati ISTAT
L’analisi delle cinque aree metropolitane evidenzia però comportamenti differenti. Napoli vede addirittura crescere dell’1% tra 2001 e 2019 la propria produttività misurata in PIL a valori concatenati per addetto, ma il PIL per occupato a Napoli è pari nel 2019 a 53.500 euro contro i 60.900 del dato nazionale. La principale area metropolitana del Sud ha, quindi, una produttività più bassa di quella media nazionale, ma ha registrato un dato che è andato meglio delle altre città metropolitane negli anni 2000. Bologna mostra una produttività in calo di 2,4 punti percentuali, dato negativo ma migliore del -4,8% nazionale, mentre il PIL per occupato è al 2019 di 68.400 euro contro i 60.900 della media nazionale. Per Torino, Milano e soprattutto Roma invece le cose non sono andate proprio bene, tutte peggio della media nazionale: Torino ha perso 8,3% punti percentuali sul 2001; Milano il 5,7% (81.800 euro del 2001 contro i 77.100 del 2019), Roma addirittura il 16%. Non certo il ruolo trainante che ci si aspetta dalle realtà metropolitane.
Figura 3. Produttività, Pil per occupato, valori concatenati, indice 2000 = 100
Fonte: elaborazione CRESME su dati ISTAT
Sembrerebbe, alla luce di questi dati, che le città italiane, nel confronto internazionale, abbiano perso la competizione con quelli che sono stati i motori della crescita degli anni 2000. Del resto, come ha scritto Bernardo Secchi ne La Città dei ricchi e la città dei poveri, “ogniqualvolta la struttura dell’economia e della società cambia, la questione urbana torna in primo piano: all’inizio della rivoluzione industriale, passando la produzione industriale dalla campagna alla città, dalla manifattura al sistema di fabbrica; quando l’organizzazione del lavoro fordista-taylorista costruisce una società di massa; al suo termine, e, infine, al principio di ciò che Bauman associa alla “società liquida”, Beck alla “società del rischio” e Rifkin all’”era dell’accesso”. …Da queste crisi la città è uscita, in passato, ogni volta diversa: nella sua struttura spaziale, nel suo modo di funzionare, nelle relazioni tra ricchi e poveri e nella sua immagine”.
Glaeser nel Trionfo della città sostiene che ”il fallimento di Detroit e di tante altre città industriali – non rispecchia alcuna debolezza delle città nel loro complesso, quanto piuttosto la sterilità delle città che hanno perduto il contatto con gli ingredienti essenziali della reinvenzione urbana.” Gli anni 2000 hanno intrapreso una nuova fase di profondo cambiamento dell’economia e della società che ha richiesto risposte in termini di reinvenzione urbana.
Si è trattato di disegnare nuovi piani strategici e visioni del futuro e soprattutto nuove stagioni di investimenti per migliorare la capacità attrattiva e la “quantità di moto” delle diverse città in competizione tra di loro. Una competizione giocata su contenuti diversi rispetto al passato: non sono più sufficienti le funzioni basic per giocare la partita – tema sul quale molte delle città italiane sono in ritardo – ma c’è un insieme di sfide più complesse sulle quali si misurano qualità della vita, capacità concreta di trasformazione urbana e contenimento del consumo di suolo, risorse pubbliche e risorse private, interesse pubblico e speculazione privata, reputazione e capacità attrattiva, qualità tecnologica del funzionamento del sistema urbano-territoriale e fluidità del processo decisionale.
La chiave di tutto questo è stato l’avvio di una nuova fase di investimento e trasformazione della città che ha caratterizzato il XXI secolo e di cui in Europa e nel mondo c’è ampia contezza. Una fase che nelle città italiane è sembrata mancare, in buona parte per mancanza di risorse, ma in buona parte anche per una “ideologia del freno e del non fare”; almeno alla luce di questi dati pre-pandemici e in attesa di valutare gli effetti dell’eccezionale quantità di risorse in corso di investimento dal 2021 al 2026 nel nostro Paese.